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Cento anni fa nasceva un grande testimone dell’amore oblativo

del numero: Anno LI n. 5 Maggio 2020

di fr. FRANCESCO DILEO, OFM Cap.

La continua e intensa preghiera, la profonda unione a Cristo nella Celebrazione Eucaristica, lo zelo apostolico, la disponibilità alla direzione spirituale, una fervente devozione mariana. Sono tante le caratteristiche che accomunano Padre Pio e Giovanni Paolo II. Ma ce n’è una che, nella coincidenza del primo centenario della nascita di Karol Wojtyla con uno dei periodi più bui nella storia recente dell’umanità, diventa messaggio di fede ed esortazione alla speranza: la sofferenza.

I patimenti di Padre Pio – dovuti ai malanni, alle vessazioni diaboliche e alla piena partecipazione alla passione di Cristo – sono già noti ai lettori di questa rivista. Anche l’esistenza di Karol Wojtyla, però, è stata continuamente segnata da tribolazioni. Da bambino e da giovane subì perdita delle persone care: la mamma a otto anni, il fratello a dodici, il padre a ventuno. Dal 1939 sperimentò l’occupazione della Polonia e la privazione dei suoi professori, «insigni uomini di cultura», che furono «arrestati e deportati in campi di concentramento». Cinque anni dopo sfiorò la morte quando fu investito da un camion tedesco e fu ricoverato per due settimane in ospedale con una «grave commozione cerebrale». Ciò nonostante, quando don Karol Wojtyla conobbe la giovane Wanda Poltawska e cominciò a dirigerla spiritualmente, «è nata un’amicizia» profonda – tanto che si definivano l’un l’altra, «fratello» e «sorellina» (ne parleremo nel numero di giugno di Voce di Padre Pio) – e «una collaborazione sempre più stretta», dopo che il sacerdote conobbe la sua drammatica esperienza di deportata e di “cavia” a Ravensbruck. Lui, infatti, pensava «che quelli che hanno sofferto durante la guerra hanno sofferto per lui, perché a lui è stata risparmiata tale sofferenza». I patimenti non lo hanno abbandonato neppure nel lungo pontificato. A partire dal 13 maggio 1981, giorno dell’attentato, la sua vita è divenuta una lunga e continua via crucis, sempre più dolorosa man mano che si avvicinava alla vetta del Calvario.

Frutto di questa personale sofferenza, oltre che del Giubileo straordinario della Redenzione, è la Lettera Apostolica Salvifici Doloris nella quale Giovanni Paolo II ha tentato di rispondere alla domanda che ciascuno, almeno una volta nella vita, si è posto: perché il male nel mondo? Una domanda alla quale diventa difficile rispondere, soprattutto dinanzi alla «sofferenza di un innocente». «Deve essere accettata come mistero, che l’uomo non è in grado di penetrare fino in fondo con la sua intelligenza», ha scritto Giovanni Paolo II che, tuttavia, ha cercato di «penetrare» in quel «mistero» e di darne una spiegazione alla luce della rivelazione e della fede. «La sofferenza ha carattere di prova», si legge ancora nel testo. È «un invito» della misericordia divina, «la quale corregge per condurre alla conversione». Ma è soprattutto l’amore «la sorgente più piena della risposta all’interrogativo sul senso della sofferenza. Questa risposta è stata data da Dio all’uomo nella croce di Gesù Cristo. […] Il male, infatti, rimane legato al peccato e alla morte», così «il Redentore ha sofferto al posto dell’uomo e per l’uomo» e, soffrendo, «ha creato il bene della redenzione del mondo». Ma «anche ogni uomo, nella sua sofferenza, può diventare partecipe della sofferenza redentiva di Cristo», perché «la redenzione, operata in forza dell’amore soddisfattorio, rimane costantemente aperta ad ogni amore che si esprime nell’umana sofferenza».

Questa lezione è divenuta testimonianza nelle domeniche di marzo del 2005, quando Giovanni Paolo II, ormai incapace di parlare perché tracheotomizzato, non si è risparmiato lo sforzo e l’umiliazione di affacciarsi alla finestra del suo studio per gridare, in silenzio, il suo amore oblativo per l’umanità.

 

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