
di fr. FRANCESCO DILEO, OFM Cap.
Un padre che ama i suoi figli non li lascia neppure un istante nei momenti critici. Un pastore che custodisce con senso di responsabilità il suo gregge non si allontana dalle pecore che lo compongono mentre sono minacciate dalla presenza di un animale predatore. Un capitano non abbandona la nave e il suo equipaggio per mettersi in salvo quando una falla o una tempesta rischiano di causare un disastro. Un vescovo non può lasciare la comunità che il Signore gli ha affidato nel momento in cui essa si trova nella drammatica situazione di dover scegliere fra la sopravvivenza e l’esodo, senza curarsi di parenti, amici o conoscenti impossibilitati a seguirli sulla via della fuga.
Il patriarca di Gerusalemme, card. Pierbattista Pizzaballa, ha scelto di restare con quella che è diventata la sua gente, con il gregge a lui affidato, con il popolo di cui è stato costituito padre, guida e pastore. Ha scelto di restare, pur sapendo di dare una delusione ai devoti di Padre Pio, che lo attendevano a San Giovanni Rotondo il 23 settembre. Ha scelto di restare, nonostante la consapevolezza di rischiare la vita quando mette piede a Gaza. Ha scelto di restare insieme a quanti, cristiani o non cristiani, sono costretti o determinati a restare.
Non è più venuto, Sua Beatitudine, nella città in cui ha vissuto gran parte della sua vita e quasi tutto il ministero sacerdotale il mistico Cappuccino di Pietrelcina, in cui è custodito il suo corpo e dove giungono milioni di fedeli ogni anno, attratti dalla sua spiritualità e dalla concessione fattagli di diventare un ponte fra Cielo e terra. Ma siamo stati noi, confratelli, figli spirituali e devoti di san Pio, ad andare idealmente da lui. A sentirci e a renderci prossimi di quanti, invece, sperimentano la sensazione di essersi ritrovati a vivere fra terra e inferno, in questo momento sostenuti non solo dalla parola, ma soprattutto dalla testimonianza, dalla presenza di un uomo, di un frate francescano, di un arcivescovo, di un cardinale, che è in Terra Santa a rappresentare Colui che l’ha abitata duemila anni fa per trasformare la sofferenza e la morte in preludio di resurrezione e di vita eterna.
A San Giovanni Rotondo, il silenzio assordante causato dall’assenza del patriarca Pizzaballa è divenuto lo spazio per trasformare la parola in preghiera. Nella veglia del 22 settembre e nelle Messe del giorno seguente le nostre invocazioni si sono elevate al Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, di Mosè, al Dio del Vecchio e del Nuovo Testamento, al Dio padre di Gesù e – in Lui e per Lui – padre di ogni uomo, per chiedergli di illuminarci con il suo Santo Spirito, per farci sentire tutti suoi figli e, come tali, fratelli gli uni degli altri.
So bene che, leggendo questi pensieri, qualche ostinato razionalista sfodererà un eccesso del suo spirito critico e mi etichetterà come sognatore, utopista, illuso e illusore.
Eppure, se apriamo la nostra mente alla possibilità di un oltre, uscendo dal dogmatismo del sensibile, e se consideriamo l’esperienza vissuta da Padre Pio, ci renderemo conto che la preghiera è «l’arma» – così la definiva – più potente a disposizione dell’uomo. Più di ogni strumento di morte creato dalla sua brama di potere. Perché la preghiera è uno strumento di vita, creato da Colui che è onnipotente.